venerdì 30 dicembre 2011

Le politiche per l’infanzia: servizi sociali ed opportunita’ educative

Gian Carlo Sacchi

In tempi di vacche magre, nonostante l’UE mantenga il punto sugli standard dei servizi prescolastici, stiamo assistendo a pericolose inversioni di tendenza circa gli investimenti pubblici, la crescente difficoltà economica delle famiglie di accedervi ed anche la qualità delle prestazioni viene commisurata all’emergenza soprattutto dettata dalle richieste dei genitori che lavorano e dalle differenti modalità di risposta talvolta di dubbia qualità.
Pur senza sostegni economici la normativa vigente, ancorché abbastanza disorganica,contempera i servizi educativi da 0 a 6 anni tra quelli “essenziali” per garantire i diritti di cittadinanza,inseriti tra le “funzioni fondamentali” dello stato e degli enti territoriali per i quali è possibile intervenire mediante una “compartecipazione” alle entrate fiscali.
Il precedente governo non avendo voluto applicare il nuovo titolo quinto della Costituzione ed il federalismo fiscale di cui tanto si è vantato ha messo alle corde gli interventi per l’infanzia, non solo togliendo risorse appellandosi alla condizione di non obbligo d’istruzione, ma impedendo con il patto di stabilità che anche gli enti locali potessero impegnarsi su tali fronti, scaricando tutti gli oneri sulle famiglie alle quali si è cercato di prospettare soluzioni interne alle stesse come più adeguate sul piano pedagogico.
Sta di fatto che ritornano le liste di attesa, anche la dove erano quasi esaurite, ed il sistema nel suo complesso si impoverisce.

I SERVIZI SOCIO – EDUCATIVI INTEGRATI PER LA PRIMA INFANZIA

In Italia manca una legge di indirizzo ordinamentale sui nidi di infanzia
che ne riconosca la natura socioeducativa e li sottragga all'ambito dei
servizi a domanda individuale. Quella dell’Emilia Romagna del 2000,aggiornata nel 2004,continua a essere un punto di riferimento, anche perchè definisce un concetto di “sistema integrato” dei servizi da 0 a 3 anni, comprendente quelli domiciliari ed altri interventi che cercano di andare incontro alle variegate istanze familiari, consentendo una pluralità di offerte,mantenendo però all’ente locale il ruolo della programmazione pubblica e del riscontro sulla qualità della proposta.
E’ da valutare se vada intrapresa un’azione legislativa a livello nazionale o possa bastare l’applicazione di quanto già esistente nonché la definizione dei previsti “livelli essenziali delle prestazioni” per fare spazio alla programmazione regionale e territoriale ed accreditare diversi soggetti e modalità di intervento.
Per i percorsi educativi 0 – 3 occorre individuare e descrivere diverse tipologie di servizi in modo da costruire un quadro istituzionale di riferimento fondato sull’idea regolativa e la pratica coerente di un sistema integrato, come risposta professionalmente garantita al “bisogno primario” e presupposto necessario per la funzionalità del servizio stesso.
Un primo nucleo di indicazioni ordinamentali è definito dalla Conferenza Stato - Regioni per quanto riguarda le sezioni primavera, 24 - 36 mesi.
Gli strumenti operativi di analisi e progettazione dovranno perciò riferirsi ad una “sostenibile” pluralità di percorsi formativi adottati dalle famiglie di cui l’Ente Locale dovrà effettuare una ricognizione periodica, per tipologie organizzative,in relazione all’età dei bambini, in modo da costituire quel sistema pubblico integrato dove accanto ai tradizionali nidi ci sarà una rete di opportunità a carattere associativo e informale come risposta istituzionale di una pluralità di tipologie equivalenti sul piano della qualità dell’offerta e su quello dei costi per le famiglie.
Occorrerà individuare sia gli standard gestionali, organizzativi e professionali per le diverse tipologie di servizi, coerenti con il principio della continuità educativa orizzontale (cooperazione educativa)e verticale (curricolo formativo), sia i livelli di formazione, come strumento di autocontrollo della qualità educativa e di supporto e tutela di tutti i soggetti della relazione di cura in un’ottica di responsabilità personale,civile e professionale, a cominciare da un quadro articolato di titoli di studio per gli operatori validi su tutto il territorio nazionale.
Il servizio proposto in chiave universalistica dovrà tenere conto della sostenibilità economica del bilancio dello stato e degli enti territoriali, nonché del contributo delle famiglie.

LE SCUOLE D'INFANZIA NEL SISTEMA NAZIONALE DI ISTRUZIONE. LEGGE 62/2000.

La scuola dell’infanzia (3-6) è entrata a pieno titolo a far parte del sistema nazionale di istruzione e formazione sancito dalla legge 62/2000, secondo l’ottica della generalizzazione. Fin dall’istituzione di quella statale si è trattato di un sistema integrato tra quest’ultima e la paritaria a sua volta divisa tra gestione privata e degli enti locali. Tale sistema integrato è regolamentato da ordinamenti nazionali e indicazioni per il curricolo,sono previsti organi di controllo specifici; alle Regioni è attribuita la programmazione dell'offerta. Per i docenti sono stati individuati percorsi di formazione universitaria e titoli di studio appositi.
Una parte del personale è a carico del bilancio dello Stato;la scuola dell’infanzia rientra nell’organizzazione degli istituti (comprensivi) del primo ciclo di istruzione, in continuità con i servizi per la prima infanzia e con la scuola primaria e sono possibili accordi e convenzioni a livello territoriale per l’erogazione dei finanziamenti pubblici a soggetti privati a seconda della configurazione dell’offerta medesima.
I tagli del precedente governo hanno diminuito il tempo scuola al solo orario antimeridiano, il completamento è spesso lasciato a figure professionali non provviste di una formazione adeguata,riducendo così un servizio riconosciuto come formativo al solo accudimento. Come per i nidi c’è la difficoltà di mettere a fuoco con adeguati strumenti didattici e organizzativi gli anticipi in ingresso e in uscita.
L’applicazione del nuovo titolo quinto della Costituzione è, come si è detto, l’occasione per consolidare tale grado di scuola nel percorso che tutela il diritto allo studio.

LIVELLI ESSENZIALI DELLE PRESTAZIONI

La recente legge sul federalismo fiscale (49/2009)stabilisce che gli interventi per l’infanzia (0-3,3-6)rientrano tra le funzioni fondamentali e quindi finanziabili interamente da parte dello Stato, tramite interventi diretti (piani triennali/l.1044 – 1971 per i nidi e finanziamenti a carico del bilancio del MIUR per quanto riguarda il personale e il fondo di istituto per le scuole statali, nonché contributi alle paritarie)e la compartecipazione alle entrate fiscali da parte di regioni ed enti locali(DPR 68/2011), a condizione, come si è detto, che lo Stato emani la legge sui Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP). La definizione di tali livelli dovrà riguardare l’intero sistema educativo di istruzione e formazione, statale e paritario.
Le politiche fiscali però non possono essere disgiunte dai modelli di governo del servizio e dovranno misurarsi con la ricerca di equilibri tra autonomia e diversità, equità e omogeneità, comparazione internazionale e obiettivi europei, crescita della persona e sviluppo economico e sociale.
Nell’orizzonte delle prestazioni non c’è, infatti, la sola dimensione economica: c’è anche quella educativa che orienta verso la qualità pedagogica e didattica dei processi formativi. Il linguaggio dei LEP dovrà dunque servire non solo ad esplicitare gli elementi essenziali (imprescindibili) che vanno in ogni caso finanziati, ma anche a far convergere i punti di vista dei vari soggetti che operano per questa finalità sul territorio all’interno delle scuole, degli enti locali e della società, per evitare che il superamento del centralismo provochi dispersione o distrazione di risorse, in quanto in questo tipo di servizio formativo il valore dei risultati finali è legato al valore del processo che ad essi conduce.
Prima di tutto occorre mettere a punto le competenze istituzionali (applicazione del titolo quinto) e pensare ai LEP in relazione alla loro specificità (0 – 3/3 – 6) pur in continuità con la filiera scolastica e formativa (long life learning), nell’ottica del “multi governo”.
La spesa perciò va smontata in tutte le componenti e livelli di amministrazione e poi ricostruita attraverso gli altrettanti livelli territoriali di imposizione fiscale.
In altre parole i LEP, anche nei limiti di compatibilità dettati dai vincoli di finanza pubblica, non possono essere ricompresi in una definizione a priori della spesa; le dinamiche finanziarie vanno studiate, programmate e monitorate in modo partecipato nell’ambito delle funzioni indicate con intese Stato – Regioni. In gioco non c’è soltanto l’efficienza del sistema, ma la crescita delle persone e lo sviluppo del Paese.
I LEP devono assicurare uguaglianza su tutto il territorio nazionale, non si tratta di livelli minimi da misurare secondo l’ottica dei risultati, ma imprescindibili secondo wuella dei diritti, pur senza rinunciare al confronto sul raggiungimento degli standard.
I LEP partono dunque dai diritti e non dai costi, anche per evitare che il calo delle risorse deprima la qualità del servizio, ma non bisogna nemmeno essere velleitari in quanto la difficile compatibilità con la spesa pubblica potrebbe incidere negativamente su territori disagiati anche oltre la “perequazione”.
La garanzia dei LEP infatti non può realizzarsi in assoluto, a prescindere dalla compatibilità finanziaria nazionale. E’ dunque necessario trovare un equilibrio tra i conti pubblici ed il riconoscimento ai cittadini di standard quantitativi e qualitativi nell’offerta dei servizi.
I LEP dovrebbero costituire il riferimento a cui ancorare la decisione partecipata sulla dimensione del fondo complessivo da dedicare al settore, comprendendovi tutti i livelli di governo, da ripartire per “quota capitaria” in rapporto agli aventi diritto. Enti locali, scuole e privati hanno la possibilità di integrazione utilizzando ulteriori risorse proprie.
I LEP funzionano dunque da ancoraggio a cui riferire nel tempo la determinazione di quello che si potrebbe definire fabbisogno nazionale standard per il comparto. Poiché però la Costituzione (art. 119) prescrive che il finanziamento garantito dallo Stato venga assegnato a ciascuna regione senza vincoli di destinazione, queste dovranno essere sottoposte a monitoraggio e verifica ex post, attraverso un sistema di indicatori, circa la loro effettiva capacità di erogare i LEP in condizione di efficienza e appropriatezza nell’utilizzo delle risorse.
I LEP andranno rivisti periodicamente assieme ai meccanismi di determinazione della quota capitaria, sulla base dei risultati conseguiti ed in rapporto all’evoluzione storica e sociale.

venerdì 8 ottobre 2010

Nidi d'infanzia oggi. La strada di Modena

Intervista ad Adriana Querzè, Assessore al Comune di Modena.

A cura di Battista Q. Borghi


Modena è stata negli anni Settanta e Ottanta una delle città che si è proposta come modello, nella quale cioè in modo più forte si sono sviluppati, fra gli altri, i servizi zero-sei, le esperienze di avvio dei nidi e delle scuole dell’infanzia.

Esisteva una linea politica molto chiara: realizzare i servizi a prescindere dall’intervento dello Stato. Non è casuale, ad esempio, che i nidi siano stati aperti prima della L.1044/1971, che le scuole dell’infanzia si siano avviate prima dell’istituzione della scuola materna statale prevista della legge 444/1969. Lo stesso accadde per la scuola a tempo pieno che, in realtà, partì grazie ad interventi realizzati dal Comune, prima dell’emanazione della L.820/1971.
Questa scelta, dal punto di vista del dibattito e della riflessione che apre, è molto “moderna”. Ci si sta ancor oggi chiedendo quali debbano essere i confini degli interventi dei Comuni, tra federalismo, scelte, supplenze rispetto ad uno Stato che si ritira dai servizi educativi e riduce l’offerta formativa. In cinquant’anni di interventi in campo educativo l’Amministrazione è comunque riuscita a sviluppare azioni, riflessioni, stili di lavoro che, per tante ragioni, ci consentono di parlare di un “modello Modena”.

Oggi tuttavia la situazione è cambiata …

Io credo che il “modello Modena” esista ancora, e continuiamo a lavorare per far sì che il modello della prima ora evolva e transiti alla luce di una situazione storica, economica e culturale completamente cambiata.

Un esempio?

Una considerazione sul bilancio: Modena continua a investire risorse ingenti sui servizi zero-sei e non solo: investe ampiamente sul tema dell’educazione in senso lato. Voglio dare qualche parametro: la metà del bilancio complessivo del Comune di Modena è dedicata al sociale e all’educazione. Di questo investimento di risorse, circa la metà è specificamente destinata a questo assessorato.
Che cosa sta dentro a questo comparto del bilancio comunale?

Ci sta il mantenimento dei nidi e delle scuole dell’infanzia: per entrambi i gradi educativi continuiamo a mantenere circa il trenta per cento della gestione diretta. Ci sono il servizio di ristorazione scolastica, i trasporti, gli interventi sui disabili con personale educativo dai nidi alle superiori. Si tratta di un investimento di circa quattro milioni e cinquecentomila euro: anche questo fa parte del modello Modena, un’attenzione forte nei confronti della disabilità. C’è anche quello che noi definiamo Patto per la scuola, cioè un insieme di linee di indirizzo che consentono l’attuazione di accordi applicativi tesi a garantire un trasferimento importante di risorse alle scuole statali non solo per quanto riguarda gli “oneri obbligatori” ma, soprattutto, per interventi connessi alle proposte formative, ai progetti , alle opportunità per gli studenti. Tutto questo si traduce in un sostegno concreto che l’Ente locale dà alle scuole statali di ogni ordine e grado sia per la programmazione dell’offerta formativa che per le situazioni di emergenza: ricordiamo che le scuole vantano crediti nei confronti del ministero ammontanti a circa duecentomila euro per ogni singola istituzione scolastica: noi non solo forniamo liquidità di cassa che, ad esempio, consentire ai dirigenti scolastici di pagare i supplenti, ma continuiamo a garantire la realizzazione della progettualità programmata.

Torniamo allo zero-sei: in che modo si sta evolvendo il modello?

Innanzi tutto tenendo conto di ciò che noi chiamiamo sostenibilità. La sostenibilità è fondamentale anche rispetto ai ragionamenti che stiamo facendo sul federalismo. Diritti per tutti coniugati a modelli che siano sostenibili per la finanza locale. Per noi sostenibilità ha significato tentare di costruire un modello valorizzi la sussidiarietà, che valorizza l’impegno di soggetti gestori altri rispetto all’Ente Locale e la governabilità che tiene in capo all’Ente locale il compito di regolare il sistema. Per quest’ultima caratteristica del modello continueremo a gestire direttamente circa il 30% dei nidi e delle scuole dell’infanzia. Il governo di un sistema misto, infatti, è un compito che non si può svolgere senza rimanere dentro ai processi, senza la possibilità di capire quali sono i nodi critici, le leve attraverso le quali è possibile chiedere e garantire qualità. Crediamo che questo sia importante perché è solo nel pubblico, se se ne ha la volontà, che si può garantire in modo sistematico la qualità.

Vale a dire?

Per me la ragione è molto semplice: nel sistema di scuole e servizi educativi comunali continua a esserci ciò che qualcuno chiama “spreco” e che io chiamo “allocazione di risorse” che, in campo educativo, sono l’unica condizione per poter sperimentare e ricercare senza l’esigenza del rientro economico. Facciamo un esempio. Sappiamo tutti che le scuole possono andare avanti anche senza la compresenza, istituto che raddoppia il costo del servizio erogato. Però con la compresenza, gestita in un certo modo - questa è la precondizione - si possono sperimentare modalità diverse di conduzione delle attività, percorsi differenziati, ecc.
Un altro esempio. L’alto numero di ore di formazione annue che noi riserviamo agli insegnanti ed educatori comunali è lo strumento che consente di avere a che fare con professionisti colti, con persone che sono dentro alla contemporaneità per ciò che riguarda l’educazione e la ricerca in educazione. Si può anche limitare, o azzerare come avviene nella scuola statale, il numero di ore di formazione che ha un costo rilevante, ma ciò produce risultati prevedibili.

Perché il privato non può fare queste cose …

Come già detto, il privato non le può fare perché costano. In un settore così poco remunerativo come quello educativo - nessuno aprendo nidi diventa ricco - il privato, per far quadrare i conti, deve ridurre gli investimenti rispetto ad alcune operazioni . Noi stiamo lavorando per trovare un mix, un equilibrio fra queste esigenze in modo che in un sistema ci siano esperienze diverse, ci siano sforzi di miglioramento dell’efficienza che possano aiutare il pubblico e ci sia l’agio dello “spreco” che in educazione può diventare investimento, nel senso che una scuola che fa fatica a coprire l’orario di apertura e dove gli insegnanti si scambiano informazioni sulla porta, non ha le condizioni per produrre davvero qualità.

Entriamo nel merito: in che modo governate questo sistema?

Intervenendo in due ambiti.
Il primo è quello dell’esternalizzazione: nidi in convenzione con un accordo tra Comune ed ente gestore; nidi appaltati con affidamento della gestione mediante gara pubblica in un immobile comunale; definizione e controllo degli standard qualitativi offerti; omogeneizzazione di alcune procedure quali, ad esempio, i criteri di ammissione ai servizi 0/6 e il centro unico comunale di iscrizione per le scuole dell’infanzia.
Il secondo è quello della “permeabilizzazione delle parti del sistema. Esiste, ad esempio, un Ufficio qualità del Comune di Modena che si occupa anche dei nidi e delle scuole dell’infanzia appaltati e convenzionati.
Pochi mesi fa, insieme ai gestori dei nidi convenzionati, abbiamo elaborato le linee guida sulla formazione degli educatori, impegnandoci sia a co-costruire percorsi formativi comuni per i dipendenti comunali e dei nidi convenzionati e appaltati, sia aprendo questi percorsi quindi sgravando le imprese dai costi diretti della progettazione e della gestione.

Che cosa state rilevando?

Stiamo rilevando una cosa che tutti sanno e che pochi dicono, e cioè che il tema della esternalizzazione (e quindi delle convenzioni e degli appalti) è sicuramente utile agli Enti locali perché riescono a fornire servizi ad un prezzo più basso.

Chi paga, alla fine, questa differenza di costo?

I servizi appaltati e convenzionati possono funzionare anche molto bene ma coloro che pagano i minori costi del servizio erogato sono i lavoratori che, in base ai contratti nazionali, vengono pagati poco e spesso sono precari.
Credo che questo aspetto debba essere tenuto molto presente: con l’esternalizzazione si realizzano obiettivi di espansione dei servizi e quindi si garantiscono i diritti dei bambini e delle famiglie ma al prezzo di condizioni lavorative degli operatori al limite della sussistenza. In molti casi non si può non parlare di sfruttamento, seppur legalizzato.
Se noi pensiamo alla comunità nel suo insieme, la possibilità che abbiamo, come Ente locale, di offrire un numero maggiore di servizi educativi , rischia di tradursi in file agli sportelli dei servizi sociali con persone - e non solo agli stranieri - che per la crisi e/o per le concrete condizioni contrattuali di lavoro fanno fatica ad arrivare a fine mese.

Quali sono state, in concreto le scelte effettuate?

Cerchiamo di considerare questo aspetto nel momento in cui facciamo le gare. Stiamo lavorando in questi giorni all’affidamento di trecentocinquanta posti nido nella nostra città e abbiamo strutturato la gara tenendo conto di una diminuzione del peso specifico del ribasso d’asta, mettendo invece dei riconoscimenti di punteggio abbastanza alti per chi si impegna a stabilizzare il personale e a introdurre migliorie rispetto alla contrattazione nazionale, che viene naturalmente, richiesta come requisito minimo. Questo per dire che l’equilibrio del sistema - cioè il tema della sostenibilità nei sistemi misti - non può essere pensato, affrontato e risolto dentro al sistema stesso, ma avendo la capacità di guardare oltre: guardare agli effetti indiretti e apparentemente scollegati dalle scelte che si effettuano. Quindi porsi la domanda: “Chi paga i minori costi del nido convenzionato o appaltato?” penso che sia importante.

Questo vale anche per i nidi aziendali?

Questa riflessione ci ha portato, dal punto di vista organizzativo e gestionale, a fare percorsi nuovi quali quelli dei nidi aziendali-territoriali. A molti fanno arricciare il naso; in realtà noi abbiamo constatato che questi nidi hanno un loro senso e anche una loro funzionalità. Dal punto di vista economico, noi chiediamo che la realizzazione dell’immobile sia sempre e totalmente a carico dell’azienda. Chiediamo anche, come previsto dalla legge regionale, che una parte dei posti sia riservata a bambini che non siano figli di dipendenti.
Le aziende hanno capito che la scelta di aprire un nido è valutata molto positivamente dai dipendenti e dalla comunità di riferimento: è una scelta, e lo dico in senso positivo, che “fa immagine” quindi, dopo un momento iniziale di perplessità hanno risposto positivamente a questa richiesta . Molti interpretano tale scelta, e questo ci ha fatto molto piacere, come un restituire al territorio quanto dal territorio è stato preso. E’ una pratica significativa di responsabilità sociale di impresa.
Come articolate le vostre convenzioni?

Attiviamo convenzioni in base alle quali si definisce la quota di posti aziendali e la quota di posti riservati all’Ente locale, introducendo poi un elemento di flessibilità che consente all’Ente locale di usufruire anche di posti eventualmente non utilizzati dall’azienda. Sono, per così dire, convenzioni “a fisarmonica”, cioè di anno in anno valutiamo, in relazione alle domande, quanti posti sono per i dipendenti e quanti per il territorio. Le cose stanno funzionando.
L’Ente locale ne trae il vantaggio economico derivante dall’impegno che l’azienda mette nella edificazione del nido e dal contributo al funzionamento dei posti ad essa riservati. Dal punto di vista politico credo che il modello sia accettabile nella misura in cui riesce a stare dentro a un sistema misto e, quindi, a funzionare sulla base degli standard individuati non per una parte di nidi di quel sistema , ma per il sistema nel suo complesso.

E a proposito dei servizi integrativi?

È l’altro aspetto sul quale stiamo lavorando. Si tratta, come è noto, di quei servizi ai quali i bambini possono accedere con un adulto, con i genitori o con i nonni. E questo è un altro aspetto interessante. Di primo acchito si potrebbe pensare che un servizio di accoglienza educativa nel quale i bambini sono accompagnati da un adulto (e non possono permanere da soli nel servizio, come avviene invece nel nido tradizionale) sia un servizio poco utile. In realtà non è così. Si tratta di servizi richiestissimi e affollatissimi perché riescono a rispondere ad un altro bisogno - tutto educativo - che è il bisogno di vincere la solitudine nella relazione educativa. Questo era rilevabile anche prima dell’attuale situazione di crisi economica, quando cioè il lavoro non aveva subito l’attuale battuta d’arresto.
Già a partire dai primi mesi di vita, i servizi integrativi diventano luoghi in cui si socializzano in modo informale, ma non per questo meno significativo, le tematiche educative che rappresentano ancora ambiti sconosciuti ai più, compresi i genitori.

Che cosa intende per tematiche educative?

Intendo i modi e la possibilità di leggere i comportamenti, le richieste, i bisogni inespressi di tuo figlio, soprattutto quando tuo figlio è il primo bambino piccolo con cui hai a che fare nella tua vita. Questi luoghi diventano contesti, dove basta la presenza di un educatore, in cui finalmente le mamme ed i papà, ma anche le nonne, riescono ad esplicitare ed affrontare questi temi. E sono luoghi importantissimi che rappresentano veramente il primo momento nel quale un genitore suo figlio nel gruppo. Lo vede da un altro punto di vista, ne vede le possibilità e le eventuali difficoltà, ha la tranquillità, magari davanti ad un caffè preso alle dieci di mattina con altre mamme e papà, di esporsi, di chiedere, di confrontarsi, di uscire da quella idea del figlio perfetto che innesca le ambizioni di essere un genitore perfetto ….e per questo destinato al fallimento.

Si tratta di servizi che costano poco …

Sono servizi che costano poco, ma hanno un ritorno che crediamo importante seppur difficilmente misurabile. Sono luoghi dedicati, contesti contenitivi interessanti dove il tempo davvero cambia. Diventa un tempo capace di accogliere ciò che non trova accoglienza da nessuna altra parte.
Sono servizi definiti da politiche “leggere” che arrivano alla gente in modo non diretto, che non hanno l’impatto forte del nido, sono poco costose, si diffondono con il passa parola e attraverso modalità veramente differenti da quelle tradizionali. Sono tuttavia politiche che arrivano al cuore, non di tutti i problemi naturalmente, ma del problema educativo. Il nostro scopo è di mettere i genitori in relazione fra loro e consideriamo questo progetto capace di creare coesione sociale, ripristinare “reti corte”, svolgere un’azione di prevenzione di molti fenomeni che stiamo osservando già nelle scuole dell’infanzia dove, una certa idea della prestazione infantile, sta mettendo in secondo piano le dimensioni relazionale ed interattiva essenziali per cresce e imparare.

Il comune di Modena propone anche il nido ‘flessibile’: di che cosa si tratta?

L’altro aspetto sul quale abbiamo lavorato molto quest’anno è il nido che noi abbiamo chiamato “nido anticrisi”. Abbiamo in città un problema di disoccupazione (o di inoccupazione) che comincia ad essere importante. Lo scorso anno abbiamo registrato un aumento delle rinunce al nido, in corso d’anno, determinato da ragioni economiche. La maggiore disponibilità di tempo di uno dei due genitori, dovuta a licenziamento, cassa integrazione, inoccupazione e la minore disponibilità di risorse economiche determinava l’innalzamento de numero delle rinunce.
Questo fenomeno non ci piace perché scarica sui bambini le difficoltà generali, quindi abbiamo messo a disposizione dei posti a frequenza solo antimeridiana (o, in alcuni casi, solo pomeridiana) che il bambino può frequentare. Abbiamo reso possibile le due opzioni - mattina o pomeriggio- con o senza il pasto. I genitori hanno gradito molto. Abbiamo rilevato che hanno aderito a questa opzione persone cassintegrate o con altre difficoltà che tuttavia ritenevano importante che il bambini non interrompesse la frequenza al nido.

Per completare il panorama: qual è la vostra posizione in relazione alle “sezioni primavera”?

Le sezioni primavera, seppur molto giovani, hanno, per così dire, fatto il loro tempo. Non sono finanziate. A Modena eravamo partiti con la realizzazione di due sole sezioni che si sono rivelate essere, di fatto, una risposta agli anticipi della scuola dell’infanzia. Sono però un corpo estraneo al nido ed un corpo estraneo alla scuola dell’infanzia. Dal punto di vista dei costi sono assolutamente vantaggiose, ma noi continuiamo a pensare che se a due anni occorre ancora un adulto ogni sei o sette bambini, diventa difficile sostenere che dopo due mesi ne basti uno ogni venti e che ancora dopo ne basti uno ogni ventotto.
Occorre ragionare sui rapporti educatori/bambini in una logica 0/6, senza sostenere l’impossibilità del cambiamento, ma anche cercando di costruire i cambiamenti con una logica centrata sulle esigenze dei bambini e non sulla organizzazione tradizionale dei servizi.
Si potrebbe pensare ad aggiustamenti del rapporto educatori/bambini in una progressione che consideri, in modo dinamico, il punto di vista del bambino: il gruppo che si allarga in relazione ad una autonomia anche cognitiva più accentuata, allontanamenti graduali dalla figura adulta di riferimento, valorizzazione della risorsa costituita dai pari. Questo non avviene oggi, in quanto, da un lato, stanno le teorizzazioni pedagogiche e, dall’altro, i conti sulla sostenibilità economica dei servizi
Si tratta di un limite da superare: il tema, infatti, è sensibile se pensiamo a quanto alta sia l’incidenza del costo di personale sul costo complessivo del servizio ma anche a quanto rilevante sia il numero di bambini accolti in ciascuna sezione, rispetto alla efficacia del progetto educativo, soprattutto se i bambini hanno due anni.



Tipologia di servizio


Nidi comunali • 16 nidi
• 53 sezioni
Accolgono:
• 153 piccoli
• 341 medi
• 484 grandi
• Per un totale di 936 bambini
Centri gioco comunali 3
Accolgono: 50 bambini
Spazio bambini comunale
Accoglie: 12 bambini grandi

Nidi convenzionati • 33 nidi
• 58 sezioni
Accolgono:
• 11 piccoli
• 335 medi
• 428 grandi
• Per un totale di 774 bambini


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martedì 15 giugno 2010

Mutamenti in atto nella scuola primaria e dell'infanzia.

Intervista a Nadia Bonora
A cura di Bijoy M. Trentin e Emanuela De Luca


Solo la scuola che sa valorizzare le ‘buone pratiche’ (interconnesse con teorie scientificamente fondate) potrà essere motore propulsivo per la crescita culturale e economica del paese: la scuola che procede con i tagli (accompagnati a solerti offensive contro la pedagogia e la didattica) potrà solo accentuare i contrasti socio-culturali. Contrariamente ai pluralismi decolonizzanti dei modelli innovatori e democratici, l’uniformismo soggiogatore delle disposizioni retrive e anti-comunitarie mira a minare alla base la mission della scuola pubblica. I mutamenti in atto nella scuola italiana stanno ridisegnando l’impianto della formazione e dell’istruzione fin dalle basi: è necessario che le trasformazioni siano condivise e considerino centrali le necessità cognitive e emotive dei discenti, nel complesso contesto della Società della Conoscenza, in cui emerga il senso della cooperazione e della comunità in contrapposizione all’ideale della competizione cannibalesca. Il confronto e il dialogo tra i molteplici punti di vista non si può stemperare in un panorama omogeneizzante, ma si deve rendere vivace in un orizzonte anti-autoritario.
Sulla direzione dei mutamenti in atto relativi in modo specifico alla scuola primaria e dell’infanzia abbiamo intervistato Nadia Bonora (http://www.unibo.it/docenti/nadia.bonora), Supervisore di Tirocinio presso la Facoltà di Scienze della Formazione dell’Università di Bologna. [B.M.T.]


Con la Riforma Gelmini, che cosa sta cambiando? Che cosa cambierà soprattutto nella formazione dei docenti?

Nella formazione iniziale, i futuri docenti frequentano un corso che fino ad ora è stato quadriennale, però esso è a termine, perché è prevista la riforma, che in questo caso noi consideriamo positiva perché il nuovo corso sarà quinquennale a ciclo unico, quindi un corso “anormale” rispetto al discorso sul 3+2. È un corso che riconosce l’importanza della formazione di un buon livello, anche perché quinquennale, per quelli che saranno i futuri insegnanti della scuola dell’infanzia e di primaria. E noi, come supervisori di tirocinio, abbiamo considerato questa decisione estremamente rilevante, perché ha tenuto insieme la formazione degli insegnanti della scuola dell’infanzia e primaria e l’ha parificata in termini quantitativi alla formazione di un insegnante di scuola superiore, dando così un valore paritario alla formazione iniziale dei futuri docenti, dalla scuola dell’infanzia fino alla scuola superiore. Quindi noi diamo un parere estremamente positivo per questo specifico aspetto. L’altro aspetto, più di merito, è che nel futuro corso saranno previste ancora le attività di laboratorio e di tirocinio, oltre a quelle teoriche di insegnamento. Perché? Perché, sulla base dell’esperienza decennale, si è visto che questi momenti formativi, svolti durante il percorso di studi degli studenti, creano un circolo virtuoso tra teoria e pratica e viceversa; infatti, gli studenti, con la partecipazione ai laboratori si mettono in gioco nel costruire appunto competenze specifiche pedagogiche e disciplinari e con il tirocinio nelle scuole con i bambini si esercitano nella pratica professionale.

Quali sono le peculiarità delle attività laboratoriali?

Le attività di laboratorio afferiscono agli insegnamenti teorici, quindi riguardano le aree pedagogica, psicologica e antropologica, dove però gli studenti incrementano capacità di tipo pratico. Faccio un esempio: nel laboratorio che conduco io, che è di area pedagogica, i ragazzi imparano a progettare dei percorsi didattici. Così è anche in àmbito psicologico, dove gli studenti, per esempio, si esercitano rispetto all’osservazione delle relazioni tra i bambini, tra i bambini e l’insegnante. E poi, ci sono i laboratori delle discipline: il laboratorio d’italiano, laboratori d’arte, matematici, che danno, quindi, una formazione pratica significativa e specifica. Ecco, poi, è chiaro che la professione dell’insegnante è talmente complessa che questa prima formazione può essere una buona base per consentire a questi ragazzi che entreranno a scuola di avere un buon bagaglio di competenze iniziali.
Quindi, per quanto riguarda il nostro àmbito, siamo soddisfatti, da questo punto di vista. È stato un risultato estremamente importante perché in controtendenza rispetto a tutto il resto e perché portato avanti prima di tutto dai presidenti delle varie facoltà, dai docenti, dai supervisori di tirocinio, che insieme hanno detto “O si fa così, oppure la riforma costruisce un percorso che non è adeguato”. Qual è il problema? È che questo nuovo corso, che doveva partire già da tempo, richiede delle risorse. E, quindi, si dice che dovrebbe partire dal 2010-2011, ma finché non saranno definite le risorse non so che cosa succederà, e in un momento come questo, di crisi economica generalizzata, in cui c’è una manovra economica che taglia in maniera veramente indiscriminata soprattutto l’àmbito scolastico e universitario, non lo so … quindi forse si continuerà con questa proroga e si proseguirà col corso quadriennale. Siamo nelle mani di Tremonti.

E in quest’ottica di tagli, quali tipologie di docenti ne risentirà di piú?

Non esiste un quadro specifico per il nostro corso, diciamo che si parla di facoltà. Per quanto riguarda la scuola, invece, abbiamo delle norme più specifiche che sono già intervenute pesantemente nell’andare a modificare quello che è il modello scolastico della scuola primaria. La riforma Moratti, prima, successivamente la riforma Gelmini, la chiamiamo così ma è un intervento di taglio prettamente economico travestito da riforma…

Si riferisce al tempo prolungato, lungo, al maestro prevalente ecc.?

Al maestro cosiddetto prevalente, ma prima di tutto al maestro unico, perché il ministro aveva esordito con questa grandissima innovazione – a suo modo di vedere poteva anche esser vera – di fatto non è stato possibile realizzarlo perché c’è un travisamento, un intrecciarsi di innovazione con dei tagli: è difficile innovare quando togli delle risorse. Per cui l’idea del maestro unico si è innestata nel taglio economico, il che ha significato avere, laddove funzionava il tempo-modulo 3 insegnanti su 2 classi, togliendo dell’organico, meno insegnanti sulle classi. E questo ha voluto dire andare a prendere delle ore in prestito laddove c’erano. Quindi cosa si è verificato? Proprio il contrario di quello che voleva il ministro: invece del maestro unico, che poi si è corretta e ha definito “prevalente”, si è verificato che nelle classi abbiamo una pletora di insegnanti. Bambini di prima elementare che vedono sei, a volte sette insegnanti, perché la logica è quella dello spezzone d’orario. C’è l’insegnante prevalente ma tutto il resto del tempo scuola viene coperto da altri insegnanti che faticano a rientrare in un progetto educativo complessivo.

In pratica dei ‘tappabuchi’?

Esatto, i dirigenti scolastici si devono destreggiare – e fanno anche bene perché devono dare una risposta in termini di servizio – e devono andare a recuperare le ore laddove ci sono, e dove sono queste ore disponibili? Sono le cosiddette ore di compresenza; il modello del tempo pieno e anche il modello del tempo modulo si poggiava sul fatto che, avendo una scuola complessa con delle classi numerose e di composizione eterogenea, richiedeva dei momenti in cui la classe potesse essere smembrata. Se tu togli queste compresenze perché devi andare a tappare i buchi, la classe rimane sempre al suo massimo numero e quindi tutti quegli aspetti qualitativi di interventi di individualizzazione, di aiuto, di sostegno, pian piano vengono a decadere e quindi gli effetti di questa manovra economica sono poi questi: che concretamente i bambini si trovano ad avere meno qualità della scuola.

Passando alla valutazione in decimi senza il giudizio: essa ha forse ha creato problemi con i bambini? Come ha reagito la scuola? E i genitori?

Io mi sono formata in questa facoltà e ho avuto la fortuna di avere come docente il prof. Gattullo, che è stato un eminente docimologo, e quindi mi sono formata da questo punto di vista nell’idea che la misurazione e poi la valutazione debbano tener conto di tutta una serie di considerazioni che difficilmente sono poi esprimibili in un numero. Su questo aspetto, cioè sull’importanza della misurazione e della valutazione articolata, c’è stato grande rinnovamento nella scuola che ha visto la nascita di modalità di valutazione diverse che tengono conto delle situazioni diversificate degli alunni, con l’idea che si debba valutare la stessa scuola, lo stesso processo educativo. Ecco, la nuova/vecchia valutazione, un vero stravolgimento di tipo pedagogico, ha creato un impatto molto forte laddove le scuole, gli insegnanti avevano costruito una modalità di valutazione appunto diversa, articolata. Quindi c’è stato un impatto forte nell’àmbito pedagogico, che a volte si è scontrato con momenti anche di difficoltà, nel senso che a Bologna abbiamo avuto anche alcune scuole che hanno deciso di non adottare questo tipo di valutazione numerica, quantitativa, e hanno dovuto subire anche una serie di ispezioni. C’è da dire una cosa: si nota un certo conformismo da parte dei docenti delle scuole come istituzioni, perché la legge dell’autonomia scolastica consente agli istituti di essere appunto autonomi e quindi di adottare le strategie che ritengono più opportune. A mio avviso, alla fine, c’è stata un’accettazione; dato che i fronti di contestazione sono stati tanti nei confronti delle misure che ha preso il ministero, forse questo è stato l’aspetto che è stato più tralasciato dalla protesta della scuola.

Si poteva essere più incisivi da questo punto di vista?

Secondo me sì. Perché, ripeto, abbiamo appunto l’autonomia scolastica che ci consente di fare questo. Probabilmente, essendoci tanti fronti di contestazione, questo lo si è un po’ tralasciato.

Proprio l’aspetto di tipo didattico viene messo tra parentesi?

Perché, io dico, che alla fine l’apprendimento si traduca in un numero può anche starci, ma è tutto il processo valutativo che devi tenere in considerazione.

Però dietro la proposta della valutazione in decimi c’è proprio un’ideologia ben diversa, di tipo anche punitivo.

Di tipo punitivo o comunque limitante, perché come fai a valutare un bambino di sei anni con un sei o con un cinque? Io credo che, dal mio punto di vista, come pedagogista e come insegnante, sia estremamente difficile.

I genitori, probabilmente, invece, pensano di orientarsi meglio con questo tipo di misurazione perché i loro ricordi risalgono alle scuole superiori. I bambini e le loro famiglie possono interpretare la valutazione anche in modi diversi. A un certo tipo di esperienza scolastica e di vedere e di vivere questa esperienza scolastica forse è collegata questa voglia di tornare alla valutazione in decimi di questo tipo?

Le famiglie, come dici tu, si sono un po’ ritrovate. C’è un ricorso al proprio passato. Io credo di vedere anche questo aspetto nelle famiglie. Cioè esse sono più preoccupate che venga a mancare il servizio, che venga a mancare l’insegnante, l’aspetto della valutazione è molto pedagogico, più didattico, è per questo che mi sarei aspettata dagli insegnanti una tenuta più salda.

E anche dai dirigenti? O i dirigenti vengono invitati invece ad avere delle condotte più diligenti anche per le questioni didattiche anche a fronte dell’autonomia?

I dirigenti, non a caso, ora sono definiti “manager”, perché a loro non sono più tanto richieste competenze di tipo didattico quanto competenze organizzative, gestionali. E i dirigenti, adesso, sono anche zittiti dal nostro direttore generale… L’insegnante che fa presente le problematiche della scuola alla società, alla famiglia, ecc. metterebbe in cattiva luce la scuola, questo è incredibile perché il ruolo dell’educatore è proprio quello di far presente certe cose, di sviluppare lo spirito critico…

È quella dell’intellettuale: dovrebbe essere questa la sua funzione.

C’è anche un altro elemento: vi è l’idea dell’insegnante, del dirigente come di un dipendente tout-court, al quale si chiede una obbedienza, un ruolo esecutivo, ma non può essere così poiché l’insegnante ha, invece, il ruolo di costruire delle scelte, formare delle persone aperte, non dei cloni.

sabato 20 marzo 2010

Io sono stata fortunata.


Continua il nostro percorso nella Scuola dell’Infanzia attraverso le voci di insegnanti protagonisti di più generazioni di impegno.
Qui un dialogo con Lucia Fava, di Bologna.

Quando ho iniziato il mio lavoro di insegnante di Scuola d’Infanzia c’era un contesto storico molto importante: erano gli anni ’70 ed era alta la tensione verso lo sviluppo dei servizi sociali, nonché l’attenzione ai beni pubblici.
Era il contesto della massima diffusione della scuola dell’Infanzia e noi sentivamo che a livello istituzionale la scuola era considerata, osservata, stimolata e tutelata.
Una occasione importante era per noi il Febbraio pedagogico; un intero mese in cui la città era coinvolta sulla scuola e le esperienze nuove circolavano con una doppia valenza: le insegnanti si sentivano gratificate perché portavano a confronto le loro esperienze e nello stesso tempo si offrivano stimoli alla ricerca e alla sperimentazione per cambiare le situazioni “ferme”dal punto di vista pedagogico.
La scuola Materna ha cambiato nome ed è diventata scuola dell’Infanzia , primo gradino della scuola di base . Con il passare degli anni nelle varie scuole si sono attivate varie sperimentazioni motivate e stimolate dalle ricerche in campo pedagogico : sicuramente all’interno hanno portato dei cambiamenti che sono rimasti, comunque, bagaglio esperienziale di ogni scuola.
Mi piace ricordare la mia sorpresa ,quando giovane, vidi Ciari e Malaguzzi discutere democraticamente su due modelli educativi che pur avendo una diversità di procedure ,erano ugualmente attenti alla complessità del mondo infantile.
La condivisione ,il confronto sono rimaste pratiche che negli anni sono scomparse.

Oggi la ricerca pedagogica ha nuove proposte per affrontare i problemi che il mondo infantile presenta ?
Bambini bersagliati e manipolati da miriadi di sollecitazioni che impediscono di fare esperienze concrete con il proprio corpo,con le proprie mani ,contornati da norme igieniche sempre più restrittive e da una moda che li intrappola in vestiti a misura di adulti ,come possono essere liberati all’esperienze se non hanno degli adulti che li accompagnano nelle scoperte ,nelle prove ,nel discernimento……

Quali possono essere i modelli di scuola che meglio rispondono alle esigenze dei bambini di oggi ?
Per bambini intendo tutti e tutte ( stranieri,bambini in difficoltà,bambini diversamente abili , bambini con risorse e con capacità ….)
La scuola sembra ferma .. i singoli progetti che per anni si sono svolti nelle scuole hanno alimentato a fornire un progetto di scuola oppure sono rimasti chiusi nel suo interno ?
In questo momento vorrei, come Rodari nelle sue storie, fare uscire dalle scuole tutte le esperienze e i progetti che alcuni insegnanti con grande passione hanno attuato credendo nel proprio lavoro..
Penso che la “buona scuola”, diversa da quello che oggi ci vogliono imporre, con la scusa dell’efficienza e della razionalizzazione delle risorse, ci sia però deve “uscire”, deve diventare “bene comune” della comunità.

E’ possibile una scuola diversa? E’ possibile una scuola in grado di “promuovere” il ruolo positivo di ciascuno, dei “forti” e dei “deboli”, una scuola aperta alla ricchezza della “diversità”, una scuola scientificamente e socialmente al passo dei tempi, consapevole dei “bisogni” dei bambini e dei ragazzi di oggi e di domani?
Ma per una scuola così, quale organizzazione è necessaria? Dobbiamo chiederci se vada ancora bene un’organizzazione in gran parte, salvo alcune modifiche di facciata, ancora modellata per obiettivi non più socialmente e culturalmente adeguati.
Diventa adesso importante, anzi vitale, che la ricerca, la cultura, la politica siano in grado di proporre contenuti, strumenti, strategie per un nuovo sistema formativo, dalla scuola per l’infanzia fino a ….
Quindi, da un’organizzazione scolastica strutturata per preparare all’avvio della scuola successiva ( la scuola elementare) si tendeva ad orientarsi verso una scuola che voleva riconoscere il bambino e il suo diritto ad essere tale, con le sue specificità tipiche della sua età (3-6 anni).
La conoscenza di Lapierre, di Ocouturier, ci introdusse a considerare il bambino tutto intero, con il suo corpo e la sua mente. Da qui il cambio di orientamento: non più scuola materna ma vera e propria scuola dell’Infanzia, per un bambino finalmente soggetto di diritti.
Allora partimmo con la destrutturazione, che rimetteva in discussione gli spazi e le modalità di utilizzo dei materiali: il materiale logico-matematico, per aiutare il bambino ad apprendere e a stimolare la mente, ce lo costruivamo da sole con il traforo: il Lotto con il cartone, i numeri in colore grandi costruiti con il legno…le ditte oggi famose sono arrivate dopo. Usavamo il Polik di legno per costruire macro-strutture, facevamo ricerche sulla lingua con la frase giocata e rigiocata, con la grammatica della fantasìa e i racconti di Gianni Rodari….
Abbiamo applicato e compreso l’importanza dell’osservazione, della comunicazione adulto-bambino, la ricerca-azione, utilizzato lo sfondo integratore….la pedagogia conduttiva ha alimentato il desiderio della ricerca continua, per offrire una scuola il più aderente possibile al bambino reale e al tempo in cui vive…

E oggi? Quale didattica oggi viene applicata nelle nostre scuole? Come si progetta? Come si verifica?
Sarebbe interessante verificare a che punto siamo, che cosa c’è dentro alle scuole, quali esperienze avanzano e con quali metodologìe.
Mi piacerebbe sapere quali cambiamenti hanno portato gli specialisti, entrati in base ai tanti anni di progetti nelle scuole per formare, ma anche per operare direttamente al posto degli insegnanti…

Se ci sono belle esperienze nelle scuole credo che ci sia necessità di dare più voce a queste….dov’è la buona scuola che esce?
Noi avevamo spazi e tempi dedicati, la Fiera del libro, l’Università era partecipe.
Io credo che ci siano ancora studiosi e scrittori, esperienze di rilievo, progetti interessanti, ma se avessimo un contatto più diretto e capillare con le belle esperienze credo che crescerebbe nelle insegnanti la voglia di ricercare, di rinnovarsi… perché sono loro la forza del cambiamento, ed è importante che sia alto in loro il senso e il valore della professione docente.
Un grande valore che ricordo come punto di forza del nostro agire professionale era il valore del lavorare in gruppo: Non capisco il maestro unico di oggi…Ma perché? Unico sì, diceva già allora Lodi, nella sua propria qualità, ma nessuno può avere tutto…in un team hai la possibilità di dare la parte migliore di te, e così più persone concorrono alla più ampia offerta qualitativa per i bambini, per offrire loro la chiave personale per aprire ciascuna mente…io credo che la complessità della realtà sociale di oggi la affronti con la collegialità.
Io sono stata fortunata perché oltre ad avere avuto dei maestri con la M maiuscola, ho avuto la fortuna di aver lavorato con colleghe che non si isolavano nelle sezioni, che avevano voglia di camminare insieme, di mettere in comune le diversità… collaborando, cooperando, siamo diventate più consapevoli e il gruppo non ha annientato l’individualità di ciascuna. Abbiamo scoperto insieme, discusso, sempre pensando di contribuire a fare una scuola democratica, di tutti e per tutti!
Lucia Fava

A cura di Monica Diamanti.

venerdì 19 febbraio 2010

Infanzia, scuola e società.

Blog tematico della rivista "Riforma della scuola", a cura di Monica Diamanti e Rina Gherardi.

Abbiamone cura !

Iniziando questa collaborazione in una rivista dedicata alla scuola e con uno spazio specifico dedicato all’infanzia, mi viene in mente un titolo e lo vorrei citare subito: “ abbiamone cura!”
La scuola dell’infanzia sta dentro al percorso o al curricolo scolastico da parente povera, sottovalutata e senza voce nei vari istituti comprensivi, sempre presi dalla quotidianità e dalle emergenze.
La scuola dell’infanzia è invece un segmento importante, da riconoscere e non sottovalutare, in quanto osservatorio di quello che sta accadendo o che accadrà dentro alla società e alla famiglia, con tutti i suoi cambiamenti.
Questa sua importanza ci veniva spesso ricordata nei continuativi rapporti che avevamo con l’università, rapporti che ultimamente si sono molto assopiti.
E veniva ricordata anche dagli psicologi, che valorizzavano il valore dell’educare in questa fascia d’età, per affrontare gli aspetti critici della condizione infantile, i bisogni del bambino, che sono gli stessi che si troveranno di fronte nell’età adolescenziale in modo più problematico e amplificato.
La scuola dell’infanzia si è fatta strada da sola, ha provato, ha ricercato, ha tentato nuove strade, ha avuto momenti in cui si è lasciata andare, tentando di sopravvivere alle continue discontinuità politiche che incontrava lungo il suo percorso: problematiche come il precariato (sia docente che collaboratore scolastico), gli spazi a volte angusti dove si doveva continuare a svolgere il lavoro, ma è sempre e ancora lì.
Sostenuta dal personale che ci crede, che crede nella collaborazione e nella partecipazione dei genitori, che crede nel valore educativo fatto di proposte, attività, ma soprattutto carico di valori e significati che vuole passare ai bambini e alle famiglie.
La scuola dell’infanzia è e rimane un grande laboratorio dove addestrasi alla socialità, alla partecipazione sia dei bambini che dei genitori.
Questo, tutto questo, richiede impegno, pensiero, formazione continua delle persone che si offrono in questa professione.
La mia famiglia (famiglia di operai della fine anni 60-70) si è impegnata per permettermi di studiare e di diventare insegnante, perché per loro il lavoro era importante; avere una cultura, una autonomia in quanto donna, ma in particolare (come diceva mia madre) il valore vero era quello di avere un lavoro che mi permettesse anche di seguire la famiglia, perchè le maestre, diceva, lavorano a metà tempo.
Credo che questo lavoro non vada inteso così come diceva mia madre, (che non se ne capacita ancora) bensì è e deve essere professionalmente rivolto ad una scuola a tempo pieno, e non per il tempo ampio fine a se stesso, ma per l’ottica maggiore con cui guardare i bambini… La scuola ha bisogno di insegnanti che sappiano pensare, guardare, costruire, per la scuola.
Occorre tempo per pensare, programmare e fare ricco questo modello di scuola, occorre offrire un tempo vero e non tolto a qualcosa, perché la scuola dell’infanzia è vera scuola, una scuola che ha bisogno di energie,di cura e di fiducia collettiva per continuare a crescere…. Per questo scrivo: Abbiamone cura!!!

Rina Gherardi

Scuola dell’Infanzia. Note da un’esperienza.




Nelle varie ipotesi progettuali la scuola dell’infanzia a volte viene accomunata ai Nidi, a volte alla Scuola Primaria. E’ davvero necessario superare questa ambiguità.
Ricordiamo che :

- A Bologna la scuola dell’infanzia si colloca storicamente, in base alle scelte politico-pedagogiche degli anni ‘70, nel progetto unitario della “scuola di base”, con riferimento ai tempi sociali del lavoro delle famiglie ma anche con attenzione tutta pedagogica ai tempi e agli spazi di vita, di relazione, di curiosità cognitive dei bambini e delle bambine dai tre ai sei anni.

- Dopo il cambiamento del suo nome – l’asilo - (che pure è rimasto a lungo nelle parole bolognesi nella sua dizione presa direttamente in prestito dal dialetto) e l’adozione fin da subito della nuova denominazione - scuola dell’infanzia - essa (in contemporanea con la qualificazione del tempo scuola a giornata integrata del Tempo Pieno) ha contribuito ad una cultura pedagogica diffusa anche a livello nazionale, tant’è vero che il modello sperimentato ed anticipato dalle nostre amministrazioni è diventato il riferimento per l’attuale scuola dell’infanzia statale.

La forte impronta sperimentale non aveva avuto l’intento di creare scuole esemplari, ma l’obiettivo prioritario era quello di attrezzarsi per avere una scuola di qualità, intenzionalmente dedicata a colmare e a ridurre le carenze culturali attribuibili alle disuguaglianze sociali ( Ciari diceva “ dare di più a chi ha meno”).
Abbiamo fortemente voluto una scuola capace di tenere insieme gli aspetti di cura con la ricerca e la sperimentazione didattico-educativa e questo ha dato risultati concreti rispetto alla lotta nella dispersione scolastica e ne ha fatto un modello di scuola esportabile e riproponibile: un riferimento di tale importanza che ha portato alla stesura della normativa nazionale di riferimento, che sono gli attuali Orientamenti del 1991.

- La scuola dell’infanzia statale dopo le sperimentazioni “Alice” e “Ascanio”, che hanno contribuito a dare un profilo originale e specifico alla scuola per i bambini e bambine dai 3 ai 6 anni, rischia di diventare oggi una “ sorella minore” negli Istituti Comprensivi, la cui nascita istituzionale sembra rispondere più a logiche di contenimento della spesa pubblica che a obiettivi pedagogici di continuità e di verticalità del percorso formativo nei tratti più significativi dell’età evolutiva - 3/6- 6/11 –11/14 anni.

- La stessa logica degli anticipi, in entrata ed in uscita, ha fortemente minato l’identità di questa scuola, promuovendo l’idea di un’infanzia da saturare con un “adultismo precocisistico” indifferente ai ritmi e ai tempi di crescita di ciascun/a bambino/a.

- Il progetto di obbligo e poi di generalizzazione dell’ultimo anno di frequenza sarebbe, a nostro avviso, fortemente da rivalutare, proprio per equilibrare le disuguaglianze di partenza specie per i bambini figli di cittadini stranieri.
L’assessore Ferratini aveva perfezionato questo progetto portandolo fino alla vigilia di una sperimentazione in convenzione con lo Stato, ed aveva cominciato ad assumere il personale precario al fine di dare più stabilità alla scuola.

- La giunta Guazzaloca in seguito, attraverso l’assessore Pannuti, ha avuto come unico obiettivo dichiarato quello di avere una quota di 50% pubblico e 50% privato: mentre il precariato aumentava nessuna posizione è stata sanata.

- In questi ultimi anni abbiamo rilevato un investimento non scontato: la scuola dell’infanzia comunale ha visto la ripresa di assunzioni di professionalità pedagogiche e una stabilizzazione del precariato che, insieme alla redazione del Piano Regolatore dell’edilizia scolastico-educativa, ci forniscono oggi le condizioni per imprimere un nuovo slancio innovativo ed anticipatore insieme al coordinamento di organismi tecnici, che diano una precisa cornice concettuale ed operativa in una rinnovata sinergia con l’Università.

- All’inizio della sfortunata vicenda legata al nome dell’ex Sindaco di Bologna, Flavio Delbono, si era parlato di realizzare un “Festival dell’economia sociale”. L’idea resta valida. Potrebbe e dovrebbe trovare posto la valorizzazione del patrimonio umano accumulato nelle nostre scuole dell’infanzia e crediamo che sia comunque indifferibile rilanciare un ampio confronto pubblico su quale progetto educativo attrezzare oggi nel XXI° secolo in risposta ai bisogni e ai diritti dei bambini, delle bambine e delle nuove famiglie, a cui l’Amministrazione di Bologna dovrà continuare a impegnare molte risorse, umane, professionali, pedagogiche e finanziarie.

Come insegnanti sentiamo a maggior ragione oggi, la necessità di poter avere gruppi di lavoro stabili e paritari a livello contrattuale e anche di percorsi di rete, che ci aiutino a testimoniare un’esperienza e una pratica di lavoro avente lo scopo di aumentare la conoscenza e la ricerca di trasferibilità, nella convinzione che è a partire dalla rielaborazione delle esperienze che si creano le premesse per un aumento di crescita professionale di tutti i soggetti coinvolti.
Aprire rapporti e relazioni con tutti significa proporre con più forza un dialogo sul fare concreto e si riuscirebbero a creare sempre più occasioni ( a carattere duraturo e costante nel tempo) che favoriscano la valorizzazione in contesti sempre più ampi, coinvolgendo più da vicino città e cittadini.

Perché investire nella scuola, investire sugli insegnanti, su tutto il personale, significa investire su un obiettivo ritenuto prioritario: il futuro del proprio Paese, rappresentato dai bambini e dalle bambine.
Anche in un momento di crisi profonda come l’attuale occorre contrastare con forza il lento e progressivo arretramento prodotto dalle scelte scellerate del Governo Berlusconi.
L’obiettivo è importante, se non strategico: occorre che a partire da qui, da Bologna, si prosegua l’impegno per la qualità dell’offerta pubblica della scuola, consapevoli dei diritti e dei valori in gioco, nonché della importantissima funzione sociale che le scuole esercitano nel territorio.

Anna Fiorini